#VelisveliAmo: scopriamo alcune opere attualmente non esposte

#VelisveliaAmo è un’iniziativa pensata per valorizzare le opere e i reperti al momento non esposte nel percorso di visita, ma conservate nei depositi.
In questa pagina, “sveleremo” al pubblico opere e reperti archeologici inediti accompagnate da un approfondimento.

Le opere e i reperti

1-Giovanni Carnovali, detto Il Piccio, “Loth e le figlie, olio su tela, 1860 ca., Collezione Enrico Lucci

Il soggetto di “Loth e le figlie” ritorna ricorrente tra i temi biblici trattati da Carnovali. L’artista ne ha dipinte varie versioni, tra cui le più conosciute sono appartenute alla collezione Ludovico Cartotti, questa tela e una datata 1872, oggi in collezione privata.

L’opera “Loth e le figlie” è stata esposta in due mostre monografiche dedicate a Il Piccio nel 1952 e 1974, dove si è definita un’ipotesi di datazione del quadro intorno al 1860.

Nel catalogo della mostra del 1974 ne viene data una puntuale lettura critica che individua “uno schema in diagonale, ben idoneo a conferire una violenta dinamicità alla composizione“. Così si spiega la preferenza che Il Piccio accorda, nel suo momento più romantico, a questo schema, come anche alle tele di “Angelica e Medoro” e ai bozzetti della “Morte di Aminta“.

Ancor più che in altre versioni note, il moto degli affetti è qui potenziato dalla resa pittorica, di rara intensità nella potenza modellante del tocco e nei forti contrasti di colore (prossimi alla “Morte di Virginia” del 1860). (Rossi – Lorenzelli, 1974, p. 105)

2-Filippo de Pisis “Casetta di montagna (La fattoria)”, olio su tela,
Collezione Enrico Lucci

Tra il 1939, anno del definitivo ritorno in Italia, e il 1949, quando fu ricoverato nella casa di cura di Brugherio, de Pisis quasi ogni estate soggiornò a Cortina d’Ampezzo. Quella era la base di partenza per escursioni nelle valli dolomitiche e fonte di ispirazione per una ricca produzione di paesaggi.

A quei luoghi dovrebbe riferirsi anche questa veduta montana, caratteristica della maniera tarda dell’artista. I casolari, fulcro centrale dell’immagine, e le figurette di montanari e animali sono infatti resi con tocchi rapidi e nervosi, con brevi campiture cromatiche che coprono solo parzialmente il supporto.
(Da “La Collezione E. Lucci”)

3-Giorgio De Chirico, “Cavalli e uomo in riva al mare”, olio su tela,
Collezione Enrico Lucci

Il tema dei cavalli entra a far parte del repertorio di De Chirico a partire dagli anni Venti, in parallelo alla riflessione teorica sul richiamo alla tradizione condotta sulle pagine della rivista “Valori plastici”.

Appare con maggiore frequenza nel decennio successivo, con riprese di modelli seicenteschi e romantici di Rubens e di Delacroix.

Nel secondo dopoguerra il soggetto viene abitualmente reso con una materia cromatica densa e filamentosa che, mentre de Chirico costantemente si richiama all’ideale della bella pittura, spesso tende ad appesantire le forme, caratterizzate da una definizione plastica accentuata.

Anche dal punto di vista iconografico sono messe in gioco citazioni e riferimenti molteplici, e in questo caso per il personaggio maschile può essere proposta l’identificazione con Ippolito, Ettore, Efebo o con uno dei Dioscuri.

4-Paolo Gaidano, “Ritratto di signora”, olio su tela

Questo bel Ritratto di signora è stato dipinto da Paolo Gaidano e donato al Museo insieme a un eccezionale corpus di disegni e cartoni preparatori che documentano i lavori che l’artista ha eseguito ad affresco in numerose chiese e palazzi piemontesi.

Chi sia la donna ritratta di profilo non è noto, così come non si sa se sia mai stato esposto al pubblico o sia frutto di una commissione privata. Il ritratto esprime tutta l’eleganza e la raffinatezza di quest’artista, moderno interprete della pittura d’accademia di fine ‘800.

5-Anfora attica a figure nere, scene dionisiache, Atene, VI secolo a.C., Collezioni Civiche

Questa anfora fu prodotta dai ceramisti ateniesi, che nel VI secolo a.C. elaborarono un grandissimo numero di vasi destinati in gran parte all’esportazione verso l’Italia in particolare verso il mercato etrusco. Era funzionale a contenere vino ed è decorata con la tecnica “a figure nere”. In questa prima grande stagione pittorica attica nelle figure, quasi sempre di profilo, tutti i dettagli erano resi incidendoli con un accurato graffito.

L’artista ha qui scelto uno dei temi mitologici più cari al mondo greco e poi romano: Dioniso, dio della vite e del vino. Dioniso, che tiene un kantharos, una coppa per bere, e una Menade, iniziata al suo culto, sono accompagnati dalla musica dei satiri suonatori di cetra.

La scena presenta una forte valenza simbolica in quanto il culto di Dioniso era legato al consumo del vino fino all’ebbrezza. Tale culto consentiva l’uscita dalla sfera delle regole quotidiane attraverso cerimonie in cui con la musica e le danze sfrenate si celebrava un ritorno alla natura selvaggia in violazione all’ordine costituito della città.

Tutto ciò è ben espresso anche dai satiri, figure mitologiche, uomini dalla natura ferina con orecchie caprine e coda.

6-Arti decorative – Collezione Maria Poma

Ecco alcuni pezzi molto “fragili” che fanno parte della collezione di arti decorative di Maria Poma.

Insieme al marito Enrico Guagno, Maria coltiva per una vita intera la passione per l’arte, acquistando dipinti dell’Ottocento italiano, anch’essi poi donati al Museo all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento.

Non solo vetri, ma anche porcellane orientali, ceramiche antiche e alcuni pezzi archeologici fanno parte di questa interessante raccolta.

7-Diobolo di Tolomeo III Evergete, Alessandria, 246-231 a.C.
Collezioni Civiche

Questa moneta in bronzo fu coniata nella zecca di Alessandria quando l’Egitto era un regno governato dalla dinastia dei Tolomei, successori di Tolomeo, il generale di Alessandro Magno che dopo la morte del condottiero (323 a.C.) ereditò questo territorio.

Sul diritto è rappresentata la testa di profilo a destra di Zeus, il re degli dei nell’Olimpo greco. Una corona d’alloro cinge la folta ricciuta capigliatura e ne indica lo statuto divino. Sul rovescio, l’aquila, animale sacro al dio, ghermisce tra gli artigli un fulmine, arma prediletta dal sovrano dell’Olimpo.

La scelta delle due immagini da parte del sovrano Tolomeo ha l’intento di porre la propria dinastia sotto la protezione della divinità principale del pantheon greco. I Tolomei, infatti, sono i portatori della cultura greca in un regno, come quello egizio, di antichissima origine, dove il faraone era un dio egli stesso. La cultura greca, invece, non ammetteva che un mortale potesse essere fatto oggetto di culto divino.

8-Skyphos, ceramica sovraddipinta, IV sec. a.C., Collezioni Civiche

Questo elegante bicchiere fa parte di una particolare famiglia di vasi che servivano a tavola per consumare il vino. I Greci lo chiamavano skyphos e nei secoli assunse varie particolarità nella forma, mantenendo sempre la caratteristica dei due manici e del corpo molto elegante.

Le botteghe dei ceramisti dell’Italia meridionale, dove si erano insediati i Greci a partire dall’800 a.C. elaborarono, nell’età ellenistica (IV-III secolo a.C.) una decorazione elegante. Era caratterizzata soprattutto da elementi naturali, definita oggi “tipo Gnathia” dal primo e più importante centro produttore: Egnathia in Puglia.

Si tratta di una decorazione sovraddipinta alla superficie nera del vaso con colori diversi (bianco, rosso, giallo), disposta su più registri e ravvivata da grappoli d’uva e pampini che alludono al vino che il bicchiere conteneva e al dio Dioniso.

9-Paolo Giovanni Crida, “Autoritratto”, olio su tela

Tavolozza, colori e pennelli: nessun dubbio che il personaggio ritratto sia un pittore!

In verità si tratta di un autoritratto, sarà stato realizzato dal vero tramite uno specchio o utilizzando una fotografia? Impossibile dirlo. Quel che sappiamo è che si tratta dell’“Autoritratto” di Paolo Giovanni Crida, un pittore biellese, originario di Graglia, che ha fatto una discreta fortuna passando alla storia come “il pittore di Don Bosco”.

Agli inizi degli anni Trenta del ‘900, infatti, dopo la canonizzazione di Don Bosco, Crida vinse il concorso salesiano e fu incaricato di eseguirne i ritratti, così che tutte le opere nelle strutture salesiane nel mondo sono unicamente di sua mano.
Autore di ritratti e nature morte, lavorò anche per Re Umberto e si dedicò alla pittura monumentale, affrescando numerose chiese in Piemonte.

10-Denario di Faustina II, Roma, 161-176 d.C., Collezioni Civiche

Nel Medagliere civico della città Biella, che contiene più di 1000 monete di cui 169 di età romana, è conservato questo denario d’argento fatto coniare a Roma dall’imperatore Marco Aurelio per la moglie Faustina II.

L’imperatrice, raffigurata sul diritto, di profilo, con una tipica acconciatura del periodo, è detta “figlia dell’Augusto Pio” in quanto era figlia dell’imperatore Antonino Pio e di Faustina I o Maggiore.
Faustina II era destinata a diventare imperatrice fin dal giorno del suo fidanzamento, a soli 9 anni, con il diciottenne Marco Aurelio, che era stato adottato da Antonino come suo successore.

Nella monetazione romana imperiale, spesso sul rovescio compaiono figure simboliche che esaltano le qualità del sovrano rappresentato sul diritto. Qui è raffigurata, sotto forma divina, una qualità indispensabile per una matrona romana, a maggior ragione nel caso delle moglie di un imperatore: la Pudicizia, dea del pudore e della moralità, col capo velato perché nell’atto religioso del sacrificio su un altare acceso.

11- Carmelo Cappello, bozzetto per “Monumento ai Partigiani” di Piazza Martiri

Classe 1912, siciliano di nascita, studente all’Istituto di Belle Arti di Monza, soldato al fronte, scultore professionista dal 1938, e biellese d’adozione. In sintesi questa la biografia di Carmelo Cappello.

Il suo arrivo a Biella risale ai primi anni ‘40 quando, a Milano, conobbe Pippo Pozzi, che lo invitò a esporre alla Galleria Garlanda. Fu in quell’occasione che Cappello conobbe sua moglie, la biellese Selene Varale e che strinse amicizie e rapporti profondi con l’ambiente artistico e industriale biellese.

Apriamo i nostri depositi e vi mostriamo il bozzetto per il “Monumento ai Partigiani” che Cappello realizzò per Piazza Martiri.
Altre sono le opere pubbliche lo scultore realizzò per il Biellese: la scultura “I tuffatori” presso la Piscina Comunale, il “Monumento ai Caduti” di Gaglianico e quello dedicato all’ “Aviatore” a Vigliano Biellese.

In Museo si conservano altre due opere: “Il ratto”, una scultura in bronzo, donata da Bruno Blotto Baldo nel 1952, proveniente dalla sua personale collezione e il “Ritratto di Piero Bora”, artista biellese, morto giovane al fronte, donata dalla famiglia insieme ad altri dipinti e bozzetti.

12- Base e coperchio di lekanis, ceramica apula a figure rosse, fine IV secolo a.C., Collezioni Civiche

Nel mondo greco, la lekanis era un oggetto in terracotta appartenente al mondo femminile, come dimostrano i molteplici ritrovamenti in tombe muliebri. Conteneva monili o elementi per la cosmesi, funzione che doveva svolgere anche nella vita quotidiana, come piccolo scrigno per la bellezza.

Il mondo greco dell’Italia meridionale, la Magna Grecia, acquisisce questo costume dalla madrepartria e i ceramisti della Puglia, in un momento particolarmente fiorente (V-IV secolo a.C.), producono per un largo mercato questi prodotti di pregio molto amati dalle donne, nella caratteristica tecnica greca a figure rosse, ma arricchita da abbondanti sovraddipinture in bianco e giallo.

La base, spesso semplicemente verniciata di nero, era una sorta di coppa su piede, a due manici, con orlo adatto a ricevere un coperchio, il vero elemento decorativo e importante: più alto del contenitore, era caratterizzato da un vistoso pomello, che consentiva anche una facile impugnatura, ma soprattutto era depositario di una decorazione fortemente indicativa della destinazione d’uso.

I coperchi di lekanides infatti accolgono quasi sempre figure femminili e, nella seconda metà del IV secolo a.C., soprattutto teste femminili di profilo, tra palmette decorative. Le signore sono finemente “agghindate”: mostrano capigliature complesse, con capelli raccolti che in parte fuoriescono da una ricca retina (kekryphalos), e decorati con nastri, come nel nostro esemplare; talora compaiono anche orecchini e collane che ci introducono nella ricca moda femminile del tempo.

13- Le ceramiche orientali della Collezione Poma

Una tartaruga ninja d’antan? Un ultimo samurai? No!

E’ un minaccioso guardiano reale che decora uno dei due grandi vasi giapponesi acquistati da Giuseppe Poma e che, alla fine dell’Ottocento, venivano prodotti a Yokohama, destinati all’esportazione verso i mercati europei.

La coppia di vasi è stata donata al Museo nel 1953 alla morte di Maria Poma che insieme al marito Enrico Guagno dedicò la propria vita a collezionare dipinti e oggetti d’arte decorativa. Queste due opere furono acquistate dal padre ma passarono poi alla figlia che proseguì ad acquistare oggetti d’arte orientale, vetri, ceramiche e porcellane di diverse epoche e provenienze, fino a costituire una collezione raffinata ed eterogenea.

Se l’espressione del volto risulta certamente poco accomodante, notevole è la capacità con cui il ceramista è riuscito a renderla e restituire la fisicità di questo guardiano in procinto di sferrare un colpo al malcapitato che gli si fosse avvicinato troppo. I particolari della veste, finemente decorata con fiori rosso, oro e verde, stridono con la sua rude corpulenza, perdendosi in volute e svolazzi, su cui si arrampicano piccole figure, restituendo armonia all’oggetto, destinato a divenire un elemento di arredo per le ricche dimore signorili occidentali.

14- Skyphos con civetta, ceramica attica a figure rosse
seconda metà V secolo a.C

Da dove beve il latte il Ciclope Polifemo nel libro IX dell’Odissea?

Da uno skyphos (in greco σκύφος), una tipica e profonda coppa per bere con due piccole anse, solitamente orizzontali, impostate appena sotto l’orlo: la forma, che varia nel tempo, nasce nel IX secolo a.C. e si stabilizza nella ceramica corinzia (VII secolo a.C.) per poi durare fino all’età ellenistica.

In età classica, nel centro culturale più importante della Grecia, Atene, nell’ambito della produzione di ceramica a figure rosse, compaiono anse di forma diversa, una verticale e una orizzontale, e una decorazione evocativa del culto più importante della città: in una composizione centrale e frontale, la civetta tra rami d’ulivo.

Qualunque greco, che con lo skyphos non beveva certo il latte, ma vino aromatizzato durante il simposio, riconosceva in questi forti simboli la dea protettrice della città, la signora dell’Acropoli: Atena, che nella gara con Poseidone per il predominio sull’Attica colpisce la roccia con la sua lancia e fa nascere il primo albero di ulivo. La pianta illuminava la notte, medicava le ferite, curava le malattie e inoltre offriva prezioso nutrimento, donando benessere e pace a tutte le genti che lo avrebbero coltivato.

La civetta, o con termine desueto, la “nottola”, che accompagna, da Omero in poi, le rappresentazioni di Atena glaucopide (dagli occhi cerulei) nei miti dell’antica Grecia e di Minerva nei miti dell’antica Roma, è indiscusso simbolo della filosofia e della saggezza.

15- Alàbastron in alabastro, produzione egizia o egeo-orientale, fine VI-inizio V secolo a.C.

Il prezioso alabastron (in greco antico: ἀλάβαστρον, alàbastron) conservato in Museo è un tipo di vaso utilizzato nel mondo antico per contenere profumi o oli da massaggio. La sua origine è antica e certamente pregreca; prende il nome dal materiale, l’alabastro appunto, con cui era originariamente prodotto dai popoli che abitavano l’Africa mediterranea, da cui poi si diffuse nel mondo classico in produzioni ceramiche di stili diversi.

Che cosa lo rende particolare rispetto agli altri contenitori per unguenti?
La forma, di dimensioni ridotte, -il nostro esemplare non supera i 15 centimetri-, che consentono di tenere il vaso in una mano, il corpo longilineo e allungato, l’assenza di anse o la presenza di piccole prese sotto l’orlo, il collo abbastanza stretto da permettere al liquido di cadere goccia a goccia.

Molti esemplari, come il nostro, presentano inoltre orlo piatto, adatto a consentire l’applicazione degli oli direttamente sulla pelle, e base arrotondata, priva di piede, che implica una struttura di appoggio, talvolta realizzata in metalli preziosi, o due forellini per mezzo dei quali veniva fatta passare una cordicella che permetteva al vaso di essere appeso.

La conformazione dell’alabastron rispondeva ad esigenze particolari: era adatto a contenere liquidi particolarmente preziosi e rari e era un oggetto tipicamente maschile, come emerge dai luoghi di ritrovamento: tombe di guerrieri e atleti appartenenti all’aristocrazia greca, magno greca ed etrusca.