#unmuseotantestorie_2: la spiritualità, la rappresentazione del sé, il gioco…nuovi percorsi di approfondimento

Prosegue la rubrica #unmuseotantestorie con nuovi percorsi dedicati alla spiritualità, alla rappresentazione del sé, al gioco e all’acqua

5. LA SPIRITUALITA’ DALL’ANTICHITA’ AL NOVECENTO

Dalle incisioni dell’uomo preistorico, alle sperimentazioni di Kandiskij: quanto la dimensione spirituale ha influenzato l’arte e la storia dell’umanità.

La spiritualità nella pietra: una stele che visse tre volte… 

Possiamo oggi affermare che questa enorme lastra di granito, recuperata a Biella nel 1922 nel luogo dove anticamente sorgeva la Rotonda di S. Eusebio, ebbe tre vite. In che senso?
In età romana venne ricavata incidendo per un altezza superiore ai 2 metri un banco di roccia sul quale erano state intenzionalmente tracciate, in epoca preromana, piccole cavità, chiamate dagli studiosi coppelle: sono simili a quelle rinvenute su molte lastre della Bessa Biellese e dell’arco alpino italiano ed erano forse servite durante rituali all’aperto per versare e far scorrere liquidi (latte o vino).
Quindi la prima vita della roccia fu a servizio della spiritualità collettiva.
La lastra ottenuta, di forma rettangolare, fu quindi usata nel I secolo d.C. per ospitare questa iscrizione:
Sex(tus) · Luc=retius M. f
Era diventata l’iscrizione funeraria di Sesto Lucrezio, figlio di Marco, sicuramente uno dei romani che abitavano il biellese. E’ questo uno dei documenti epigrafici latini più antichi del Piemonte settentrionale, a giudicare da onomastica e paleografia, come si nota ad esempio dalla forma ancora “arcaica” della M.
Ma la stessa lastra, molto più tardi, venne riusata come coperchio di sarcofago, con la parte inscritta rivolta verso l’interno, mentre sul retro era ricavato il tipico profilo a doppio spiovente. La seconda e la terza “vita” della lastra di pietra furono dunque destinate al culto funerario privato.


Stele funeraria di Sextius Lucretius, inizio I secolo d.C.

Arte e spiritualità: cosa vi viene in mente?

Sono tante le opere che hanno percorso la storia dell’arte legate a temi religiosi e nate per decorare le nostre chiese, ma ce ne sono tante altre che vanno dritte a colpire la nostra sfera emozionale.
Nella storia dell’arte contemporanea, all’inizio del Novecento, c’è stata una rivoluzione. A farla fu Kandinsky e l’aveva annunciata scrivendo un libro intitolato “Lo spirituale nell’arte”. Con lui nasce l’arte astratta, e dopo di lui, molti artisti non rappresenteranno più la realtà come avevano fatto fino ad allora ma utilizzeranno forme, linee e colori per esprimere i propri sentimenti.
Guardiamo il nostro “Concetto spaziale” di Lucio Fontana che bucava le tele per creare “una dimensione infinita, (…) più in là della prospettiva, (…) corrispondente al cosmo” e proiettare l’oggetto al di là dei suoi limiti fisici.


Lucio Fontana, “Concetto spaziale”, Collezione Lucci

LA SCHEDA DIDATTICA

IL CONSIGLIO DI LETTURA


“Nell’agosto del 1910, a Murnau in Baviera, Wassily Kandinsky termina uno degli scritti più singolari del secolo. Si intitola “Lo spirituale nell’arte”. Non è una dichiarazione di poetica, non è un trattato di estetica, non è un manuale di tecnica pittorica. È un libro di profezie laiche, in cui misticismo e filosofia dell’arte, meditazioni metafisiche e segreti artigianali si sovrappongono e si confondono, nel presentimento di un’arte nuova. L’aurora della pittura, che Kandinsky crede di annunciare, si riverbera anche sulle sue pagine, che ci appaiono insieme incerte e perentorie, divise tra ombra e chiarore.” (Dalla postfazione di Elena Pontiggia)

6. LA RAPPRESENTAZIONE DEL SE’

Dal sarcofago della mummia e dai reperti archeologici, fino agli stemmi, ai ritratti su commissione e ai loghi moderni: come l’uomo ha rappresentato sé stesso.

Il pugnale del “capo”: pugnale in bronzo “tipo Montemerano”, 1800-1600 a.C.

Fare sfoggio di oggetti rari e preziosi è la forma più usata nell’antichità per mostrare se stessi, soprattutto quando si è importanti…
Il più notevole esemplare di pugnale in bronzo a manico fuso presente in un museo italiano ci racconta un’affascinante storia di uomini, di abilità tecniche e di potere.
Forgiato da un abilissimo artigiano del bronzo più 3500 anni fa, è eccezionale per lunghezza (44 centimetri !) e per l’elaborato manico fissato alla lama da un’elsa con chiodini. Ma ciò che ci cattura di più è soprattutto per la finezza della decorazione presente su entrambi i lati della lama triangolare: chi ha potuto con tale precisione eseguire quelle perfette nervature e quelle file di triangoli incisi e campiti col tratteggio?
Gli archeologi sanno che questo tipo di pugnali a manico fuso venivano prodotti nelle officine della valle del Rodano e nella penisola italiana dal 1800 al 1600 a.C.: il nostro probabilmente arriva da ateliers toscani.
Ma come mai è arrivato nel territorio biellese e, soprattutto, a che cosa serviva?
Nell’età del bronzo i pugnali a manico fuso erano beni destinati esclusivamente ai personaggi eminenti, che così affermavano una supremazia come guerrieri; la loro vasta diffusione potrebbe essere legata alla consuetudine del dono tra capi comunità come strumento per allacciare relazioni diplomatiche. Il loro ritrovamento ci svela quindi una fitta rete di rapporti tra popolazioni, basati sullo scambio e anche sull’imitazione di raffinati modelli tecnologici e culturali.

Lo stemma della famiglia Ferrero

Lo stemma della famiglia Ferrero, nobile famiglia biellese, spicca un po’ ovunque all’interno del complesso di San Sebastiano. Sulle volte, tra le decorazioni a grottesca, sulle vetrate in chiesa ma anche negli ambienti dell’ex convento. A dare avvio al cantiere all’inizio del ‘500 fu proprio Sebastiano Ferrero, che a quel tempo, dopo aver ricoperto importanti cariche amministrative alla corte sabauda, si trovava a Milano, al servizio di Luigi XII.
In una delle sale al pian terreno (quella che oggi è la biglietteria dal Museo), al centro del soffitto, ritroviamo lo stemma di famiglia con il leone rampante, all’interno dello scudo, su fondo bianco. In questo caso le iniziali ai lati –  A e F – ci riportano ad Agostino Ferrero, uno dei figli di Sebastiano, che fu anche Vescovo di Vercelli e che probabilmente promosse la campagna decorativa del refettorio del convento (oggi sala conferenze).

LA SCHEDA DIDATTICA

7. IL GIOCO

Dai giochi antichi, come “Il gioco delle noci” degli antichi Romani, la trottola trovata a Pompei o le prime bambole, fino al gioco nella storia dell’arte, da “I bari” di Caravaggio, fino al capitolo dedicato ai giochi presenti nel manifesto futurista del 1915.

Il gioco è donna: pedine da gioco in vetro, Cerrione (BI), 70-100 d.C.

Per gli antichi Romani c’era sempre tempo per divertirsi, anche quando si era tra le mura domestiche….

“Se muovi le pedine sulla dama, fa in modo che il tuo soldato muoia per mano del nemico di vetro” diceva il poeta romano Ovidio alludendo ad uno dei giochi più diffusi dell suo tempo, il ludus latrunculorum, in cui il riferimento al vetro si spiega col fatto che generalmente le pedine – calculi, milites e latrunculi – erano di vetro.
Quasi duemila anni fa una donna piuttosto ricca moriva nel suo villaggio a Cerrione, un paesino vicino a Biella e…per rendere la sua vita dell’Aldilà il più possibile uguale a quella terrena i suoi cari le ponevano nella tomba oltre ad una collana di ambra, tanti contenitori per profumi e …un gioco!
Gli archeologi hanno infatti ritrovato 18 pedine circolari in vetro blu e bianco trasparente.
Probabilmente in origine le pedine erano venti in totale e erano appoggiate su una tabula lusoria, come i Romani chiamavano le tavole da gioco, che però, invece di essere in marmo o terracotta come quelle delle osterie o dei luoghi all’aperto, era in legno e non si è più conservata.
Pensiamo che gli oggetti all’interno delle tombe siano chiaramente segno delle abitudini dei vivi, quindi con quali giochi da tavolo poteva divertirsi la signora?
Il poeta dell’amore cita anche il duodecim scripta, corrispondente al nostro “tric-trac”, chiamato nei paesi anglosassoni backgammon, e quello, di cui si ignora il nome latino, identificabile con il moderno tris o ancora quello che noi denominiamo “filetto”.
Non importa quali e quanti giochi sapesse fare la signora di Cerrione con le sue amiche o i suoi familiari, il messaggio è certo: “ti sfido!” e “il gioco è vita!”

Ma l’arte è un gioco o il gioco è un’arte?

Dino Buzzati riteneva il lavoro dell’artista un “Mestiere fortunato” e ci racconta il perché…

“Il re guardando meglio, notò […] vari uomini che stavano giocando. Chi giocava coi pennelli e coi colori, chi giocava con la creta, chi giocava con gli affilati bulini. Meravigliato, chiamò il sovrintendente e gli chiese. “Come mai, oggi che è un giorno di lavoro, vedo giovanotti e uomini nel pieno delle forze che al contrario stanno giocando?” “Si tratta degli artisti maestà – rispose quello – ma anch’essi non giocano, lavorano”. “Se mi dicevi ieri che per gli artisti l’arte è il più piacevole gioco!” “è vero- spiegò il sovrintendente ai reali palazzi- l’arte per gli artisti è il più delizioso dei giochi. Nello stesso tempo l’arte, per gli artisti è il più impegnativo ed arduo lavoro.” “Dimodochè, quando giocano lavorano? E quando lavorano giocano?” “Per l’appunto maestà.” Al che il re esclamò “Che gente fortunata!” Ed era vero.

Qui l’artista Giuseppe Bozzalla al lavoro a Gressoney, nel 1910, sull’opera che diventerà “A messa prima” esposta nella nostra sezione storico-artistica. (Archivio Fondazione Piacenza)

LE SCHEDE DIDATTICHE

8. L’ACQUA

Quando a Biella c’era il mare…, la sezione Paleontologica, l’estrazione dell’oro nei torrenti, la piroga del Lago di Bertignano fino all’importanza dell’acqua nello sviluppo dell’industria manifatturiera raccontata anche dai dipinti di Giuseppe Bozzalla.

E poi un tutorial per realizzare un personalissimo teatrino animato.

Brocche (olpi) e bicchiere romani in vetro. Necropoli di Biella-via Cavour e Cerrione (BI) –I secolo d.C.

Sulla tavola dei Romani all’acqua si preferivano altre bevande, ma certo l’acqua era fondamentale per realizzarle e servirle…
Il poeta comico greco Alexis (IV secolo a.C.) mette in bocca al famoso legislatore Solone: ​​”Già dai carri vendono il vino annacquato, non certo per guadagnare qualcosa in più, ma per permettere agli acquirenti di avere la testa leggera dopo aver bevuto!”. I Romani ereditarono, attraverso gli Etruschi, l’usanza di bere vino da Greci ma…non era vino puro! si trattava di una miscela con l’acqua che avveniva in grandi crateri e di solito era un rapporto di tre parti di acqua e una di vino.
L’acqua utilizzata per la diluizione del vino proveniva da una fonte, una fontana corrente incontaminata, o da un pozzo naturale freddo. Così insieme alla miscelazione si otteneva anche il raffreddamento. Diffusa era la pratica di utilizzare l’acqua sciolta della neve, che, come è noto, si conservava anche in estate per poi commercializzarla. L’imperatore romano Eliogabalo offriva al popolo vino rosatum, aromatizzato con petali di rosa o vino mielato appositamente sistemato in piscine e in tinozze da bagno!
Il vino romano era “condito” con diverse spezie e aromi, il mulsum ottenuto con l’aggiunta di pepe e miele fresco; era usata anche la resina che ancora oggi caratterizza il famoso vino greco…addirittura la pece e la mirra!
Sulle tavola i Romani portavano brocche, dette olpi, in terracotta che, a partire dall’età dell’imperatore Tiberio, lasciarono il posto a veri e propri “servizi” composti anche da coppe e bicchieri, sempre più raffinati in vetro naturale o colorato, materiale igienico, trasparente, espresso in forme eleganti e colorate.

Yves Tanguy “Sortons”, olio su tela, 1927, Collezione Lucci

Paesaggio acquatico o desertico? Certamente sospeso in una dimensione spazio-temporale impossibile da circoscrivere.
Era così, il mondo pittorico di Yves Tanguy. Autodidatta, trascorre la prima parte della sua vita a Parigi, dove nel 1923 conosce Giorgio De Chirico e rimane folgorato dalla sua opera, da cui sarà molto influenzato, pur riuscendo a rielaborarla in modo personale.
Entrerà a far parte del gruppo dei Surrealisti, dedicandosi a una pittura che rispecchia l’immaginario fluido e indeterminato che caratterizzerà l’intera sua produzione. Paesaggi interpretabili come fondali marini o estensioni desertiche, in cui galleggiano elementi biomorfici privi di peso, che proiettano dietro di sé ombre nettamente profilate.
Anche in Sortons!, una piccola tela, donata al Museo da Enrico Lucci, ritroviamo questa atmosfera sospesa. Realizzata nel 1927, fu esposta alla prima personale parigina del pittore che si tenne presso la Galerie Surréaliste, diretta da André Breton.

LE SCHEDE DIDATTICHE